8 giugno 2020
Cari ragazzi,
in conclusione di questo anno scolastico così particolare che oggi non ci vede riuniti “per l’ultimo saluto” e l’augurio di una buona estate, abbiamo deciso di regalarvi questo articolo scritto da un noto prof. e scrittore Alessandro D’Avenia. Il perché è molto semplice, provate a leggerlo…parla di voi, dei prof. e getta una speranza, un invito che a noi interessa cogliere: “che la scuola possa essere un giardino di vocazioni, capace di curare le novità di ognuno”. Questi mesi di formazione a distanza hanno visto un gran impegno e dedizione da tanti di voi, che hanno deciso di cogliere seriamente anche quest’occasione, vivendola come occasione per imparare – anche se in una forma più difficile – e di relazione. Vi auguriamo un’estate di riposo e di scoperta di qualcosa di nuovo di voi. Siamo sicuri che per tanti la fatica di questi mesi darà il suo frutto.
Arrivederci a settembre!
37. Pietà per la scuola
di Alessandro D’Avenia | 25 maggio 2020
Il 21 maggio del 1972 un uomo, tra le urla, si lanciò con un martello contro la Pietà di Michelangelo in San Pietro. Prima che un pompiere, in visita alla basilica, riuscisse a bloccarlo aveva già assestato 12 martellate alla statua della Madonna, staccandole un braccio e sfigurandole il volto. Tutti si sentirono feriti nel proprio corpo, perché la bellezza è la memoria viva degli uomini, resa duratura nelle opere del loro agire migliore (politico, artistico, tecnico…). Quel marmo appartiene a me e a voi, come accade con i ricordi di famiglia più intensi. Memoria non è infatti un passato da ripetere per una nostalgia malata, ma vita che non muore, presente continuo che penetra i secoli, frantuma gli orologi e offre all’uomo di tutti tempi l’energia di cui ha bisogno per rinnovarsi: trasformare in vita il dolore di una madre per il figlio morto (la Pietà) è una delle vette della memoria. Così l’opera, come racconta il documentario «La Violenza e la Pietà», fu riparata con la cura dovuta alle cose irripetibili e le sue cicatrici testimonieranno per sempre che noi siamo o costruttori o distruttori. I primi, in ogni ambito, salvano il mondo perché ne compongono la memoria, cioè la vita, mentre i secondi la demoliscono. In mezzo ci sono gli istruttori, coloro che istruiscono, cioè donano alle nuove generazioni i ricordi più vivi della famiglia umana: la chiamiamo «scuola».
Che ne è stato della scuola così intesa in questi mesi? Come ci siamo presi cura della vita di bambini e ragazzi? Le decisioni, prese spesso fuori tempo (come per l’esame di terza media e di maturità), li hanno aiutati? Per rispondere mi servo di un esempio personale. A un mese e mezzo dalla decisione di chiudere le scuole, sono stato contattato dal Ministero per partecipare a una lodevole iniziativa: fare, insieme ad altri «Maestri» (titolo del format), due lezioni di 15 minuti su temi a mia scelta, che poi sarebbero andate in onda su un canale nazionale. Ero allettato (o meglio il mio ego lo era), ma poi mi sono concentrato sui ragazzi e ho declinato l’invito, perché l’ultima cosa di cui avevano bisogno era l’ennesima lezione da schermo. La proposta, sacrosanta in tempi normali, non solo rafforza l’idea sbagliata che la scuola si possa fare senza corpi, con sconosciuti e senza interazione, ma conferma la concezione sterile dell’istruzione come frammentazione di nozioni senza connessione con la vita integrale: per far fiorire le persone non basta la ragione ma ci vuole soprattutto la relazione. Istruire non è inserire dati in teste senza corpo ma innestare, nel corpo «vivo» della memoria umana, i «recenti», perché diventino «viventi». Mi sembrava che in questo faticoso frangente servisse altro ai ragazzi, perché, nelle situazioni di crisi, la resistenza viene dalla liberazione di energie interiori non ancora attivate. Serviva soprattutto l’orientamento che a scuola è quasi del tutto trascurato e risolto in notazioni più o meno estemporanee o in vetrine di università a caccia di iscrizioni. Troppi ragazzi non sanno cosa fare (università o no? quale facoltà?) e finiscono per scegliere non a partire dalla conoscenza di se stessi e del mondo, ma in base a illusioni o pressioni familiari e culturali, rassicuranti sul breve periodo, fonte di crisi sul lungo. Così, in questi mesi di didattica a distanza, oltre a portare avanti delle lezioni sull’esplorazione della propria vocazione sui canali social, ho preparato per i miei studenti e genitori dei video e dei questionari per identificare i loro segni vocazionali, cioè concentrarsi su ciò che c’è già anziché su ciò che manca, sul futuro anziché sulla cronaca. È una iniziativa personale, non in programma, svolta nelle mie ore: niente valutazioni, semplice esplorazione di attitudini e punti deboli, con l’aiuto dei genitori. Sono convinto che solo quando la scuola sarà giardino di vocazioni, capace di curare la novità di ognuno, sarà veramente democratica, rendendo tutti (non a chiacchiere) liberi (autonomi nelle scelte e nello sviluppo della vita). Questo è ciò che si può fare da casa, mettendo insieme forze e professionalità, con un pc e gratis: figuriamoci con risorse (spendiamo — per cosa esattamente mi piacerebbe saperlo — per ogni studente di scuola statale circa 7 mila euro l’anno!) e un progetto di lungo periodo, svincolato da logiche di partito o di propaganda. Sono stanco di slogan, promesse e silenzi complici.
Come il pompiere che fermò il vandalo della Pietà, non possiamo più ignorare l’azione distruttiva di chi, per interesse, inerzia, ignoranza o incapacità… continua a martellare sul futuro del nostro Paese.